“Messo il nome, e di tanto suo gusto, al cavallo, volle metterlo a se stesso; nel qual pensiero durò altri otto giorni, finché riuscì a chiamarsi don Chisciotte15: dal che, come s’è detto, arguirono gli scrittori di questa vera storia che, sicuramente si doveva chiamare Chisciada e non Chesada, come altri vollero dire. Ricordandosi però che il valente Amadigi non si era soltanto contentato di chiamarsi Amadigi asciutto asciutto, ma che aggiunse il nome del regno e della patria sua per darle maggior fama, e si chiamò Amadigi di Gaula, così volle, da buon cavaliere, aggiungere al nome suo quello della patria e chiamarsi don Chisciotte della Mancia: con che, secondo lui, manifestava molto chiaramente il suo lignaggio e la patria, cui faceva onore prendendo da lei il soprannome.”
In questo si possono leggere le ragioni che portano il nobile a scegliere il nome con cui ribattezzarsi. Da un lato, sceglie “don Chisciotte” perché si suppone che sia più vicino al suo vero cognome. Il narratore insiste sul fatto che ciò è attestato da varie fonti. Dall’altro, il nobile decide di aggiungere “della Mancia”, per imitare il suo eroe esemplare, Amadigi di Gaula, di cui dirà in seguito che “era uno dei più perfetti cavalieri erranti”; e perché, in questo modo, crede di poter onorare la sua patria.
“Ripulite, dunque, le armi, del morione fattane celata, battezzato il ronzino e cresimato se stesso, si dette a credere che altro non gli mancava se non cercare una dama di cui essere innamorato giacché il cavaliere errante senza innamoramento era come albero senza foglie né frutto, corpo senz’anima.”
L’amore per la dama, la servile devozione del cavaliere e la sua invocazione in ogni avventura che intraprende sono una regola della cavalleria errante. Per questo don Chisciotte, dopo aver compiuto tutte le azioni che gli permettono di imitare un cavaliere errante (scegliere un nome per sé e per il suo cavallo, allestire la sua armatura), sceglie una dama di cui innamorarsi, per soddisfare questo requisito essenziale.
“Chi sa che nelle età future, quando venga alla luce la veridica storia delle mie famose gesta, il dotto il quale abbia a scriverne, allorché giunga a narrare questa mia prima uscita tanto di mattinata, non metta così: «Aveva appena il rubicondo Apollo disteso per la faccia dell’ampia e vasta terra le fila dorate de’suoi bei capelli, e avevano i piccioli e variopinti augelletti con lor musicali lingue appena salutato con dolce e soave armonia l'apparire della rosata aurora, la quale, lasciando il tiepido letto del geloso marito, dalle porte e dai balconi del mancego orizzonte, ai mortali si mostrava, quando il famoso cavaliere don Chisciotte della Mancia, lasciando le oziose piume, salì sul suo famoso corsiere Ronzinante, e cominciò a camminare per l'antica e celebrata campagna di Montiel».”
In questo passo si legge come don Chisciotte immagina l’inizio del futuro libro che narrerà le sue imprese. In questo inizio immaginario, l’hidalgo imita lo stile elevato dei romanzi cavallereschi e ricorre all’alba mitologica, che compare spesso all’inizio di essi. Al contrario, si può notare, poco più avanti, il modo in cui il narratore del romanzo descrive le sue azioni, senza parole altisonanti, in modo più realistico, umoristico e pungente: “Con queste continuava a mettere insieme altre sciocchezze, tutte alla maniera di ciò che gli avevano insegnato i suoi libri, imitando per quanto poteva il loro linguaggio. Con questo, camminava così lentamente, e il sole arrivava così veloce e così caldo, che era sufficiente a sciogliergli il cervello, se ne aveva”. Apollo, il sole mitologico del discorso nobile, nel discorso del narratore, diventa, un caldo sole estivo che gli scioglie il cervello.
“Badate bene che per nessuna di queste strade vanno uomini armati, sì bene mulattieri e carrettieri i quali non solo non portano celate, ma forse non le hanno mai sentite mentovare in tutta la loro vita.”
In questo passo si può notare il netto contrasto tra la realtà, presentata da Sancio Panza, e le aspettative di don Chisciotte. Il nobile intende fare un digiuno penitenziale fino a quando non avrà ottenuto una nuova celata, e desidera sottrarla a un altro cavaliere dopo averlo sconfitto in combattimento. Sancio lo avverte con queste parole che il suo desiderio è impossibile.
“Dico parimenti che quando alcun pittore vuole riuscir celebre nell'arte sua, cerca d'imitare gli originali dei pittori più eccellenti che conosce; e questa stessa regola vale per tutte le altre arti e professioni d’importanza che ridondano a lustro delle repubbliche. Così pertanto deve fare e fa colui che vuole acquistarsi fama di prudente e paziente, imitando Ulisse, nella persona e nelle fatiche del quale Omero ci dipinge un’immagine viva di prudenza e di pazienza; come pure, nella figura di Enea, Virgilio ci fe’ vedere la virtù di un figlio devoto e la sagacia di un valoroso ed esperto capitano, non già dipingendoli e descrivendoli tali quali essi furono, ma quali dovevano essere per dare ai posteri il modello delle loro virtù.”
Con queste parole don Chisciotte spiega perché vuole imitare Amadigi di Gaula, che “fu uno dei più perfetti cavalieri erranti”. Si riferisce a Ulisse ed Enea, celebri personaggi rispettivamente di Omero e Virgilio, come modelli, l’uno di prudenza e tenacia, l’altro di pietà, coraggio e comprensione, creati per dare esempio delle loro virtù agli uomini. Così come chi vuole raggiungere le proprie virtù deve imitare questi eroi, il gentiluomo, per raggiungere la perfezione nella cavalleria, deve imitare Amadigi di Gaula, come un pittore che imita i migliori originali.
“Cosicché, o Sancio, Dulcinea del Toboso, per quello che io voglio da lei, vale quanto la più alta principessa della terra. Certo che non tutti i poeti i quali cantano dame sotto un nome da loro immaginato, ce l'hanno poi davvero. Credi tu che le Amarilli, le Filli, le Silvie, le Diane, le Galatee, le Fillidi, e altre tali di cui son pieni i libri, i romances, le botteghe dei barbieri, i teatri comici, siano state davvero dame in carne e ossa e di coloro che le celebrano e le celebrarono? No, sicuramente; la maggior parte sono invece immaginate dai poeti per dare argomento ai loro versi per essere ritenuti innamorati o per uomini che tali ben potrebbero essere. Pertanto, a me basta di pensare e di credere che quella buona donna di Aldonza Lorenzo è bella e dabbene. La faccenda della stirpe importa poco, poiché non si deve già farvi su delle ricerche per poterle concedere qualche ordine cavalleresco, e io poi faccio conto che sia la più alta principessa del mondo.”
Don Chisciotte dà una nuova dimostrazione di lucidità distinguendo tra letteratura e vita. Qui spiega a Sancio Panza che le dame a cui si riferiscono gli scrittori sono più ideali che donne “in carne e ossa”. Pertanto, per lui non ha importanza chi sia realmente Aldonza Lorenzo, né quali qualità abbia. Per gli scopi che l’hidalgo persegue, è sufficiente che la sua dama sia lodata secondo il modello letterario.
“Coloro che erano stati ad ascoltarlo furono presi da nuova pietà al vedere che un uomo di sano intendimento, in apparenza, e che ragionava bene di ogni argomento di cui discutesse, lo aveva così irrimediabilmente perduto quando gli si toccava della sua nefasta, trista cavalleria.”
In questo passo il narratore evidenzia la peculiarità della follia di don Chisciotte. Sebbene i suoi ragionamenti e i suoi comportamenti siano inadeguati alla società in cui vive quando imita i personaggi della letteratura cavalleresca, nel resto delle situazioni dimostra grande lucidità. In questo caso, dà prova di comprensione ed eloquenza quando pronuncia il suo discorso sulle armi e sulle lettere, che lascia ammirati e soddisfatti tutti i commensali della locanda di Juan Palomeque il Mancino.
“Io non ho mai veduto alcun libro di cavalleria che metta insieme una favola ben congegnata in tutte le sue parti, di maniera che il mezzo corrisponda al principio e la fine al principio e al mezzo: invece se ne compongono con tante membra che sembra piuttosto vogliano formare una chimera o un mostro che disegnare una figura ben proporzionata. Oltre a ciò sono, nello stile, duri; nelle imprese, inverosimili; negli amori, lascivi; nelle cortesie, malaccorti; nelle battaglie, prolissi; nei discorsi, insulsi; nei viaggi, assurdi e, finalmente, lontani da ogni giudizioso artificio; degni, perciò, di essere esiliati dalla repubblica cristiana, come gente inutile.”
Dopo che il prete Pietro Pérez spiega al canonico in cosa consista la follia dell’hidalgo, quest’ultimo fa un discorso contro questi libri. In questo passaggio è presente un’ampia enumerazione dei difetti formali ed etici che egli attribuisce loro. Nelle sue parole riecheggiano quelle del prologo del Don Chisciotte, dove l’amico dell’autore esprime l’intenzione dell’autore, reale o apparente, del libro. L’amico afferma: “tutto è invettiva contro i libri di cavalleria” e “mira solo ad annullare l’autorità e il posto che i romanzi cavallereschi hanno nel mondo e nella gente comune”.
“Vossignoria pertanto creda a me e, come le ho detto già prima, legga di questi libri e vedrà come le bandiscono la malinconia che caso mai avesse e le fanno migliore il carattere se mai l’abbia guasto. Per parte mia le so dire che da quando sono cavaliere errante sono valoroso, garbato, liberale, bennato, magnanimo, cortese, mite, paziente, tollerante di fatiche, di prigionie, d'incantagioni; […].”
Don Chisciotte discute con il canonico sul valore dei romanzi cavallereschi e lo esorta a leggerli (nonostante il canonico avesse già detto di essere un lettore di questi libri), evidenziandone la qualità. Il canonico ritiene che questi libri meritino di essere bruciati perché contengono bugie a cui molti ignoranti credono. L’hidalgo, tuttavia, afferma in sua difesa che l’esercizio della cavalleria errante lo ha portato alla perfezione spirituale.
“Ti dirò soltanto, così di sfuggita, che non c’è cosa più piacevole al mondo dell’essere onorato scudiero d’un cavaliere errante in cerca d'avventure. Ben è vero che le più che s’incontrano non riescono di tanta soddisfazione quanto si vorrebbe, perché di cento che se ne trovano, novantanove, di solito, riescono alla rovescia e storte. Lo so io per esperienza, perché da qualcuna ne sono uscito sobbalzato in una coperta e da altre legnato; ma, nondimeno, è una gran bella cosa l’aspettare gli eventi valicando monti, esplorando selve, scalando picchi rocciosi, visitando castelli, alloggiando in osterie a tutta tua discrezione, senza pagare — che vada al diavolo — un quattrino.”
Sancio torna al suo villaggio dopo aver accompagnato don Chisciotte come suo scudiero e dice alla moglie che questo è stato il compito più piacevole che abbia mai intrapreso. Nonostante le avversità che hanno dovuto affrontare, è soddisfatto e afferma che non c’è niente di meglio al mondo che mettersi in viaggio, in cerca di avventure.