Riassunto
Capitolo 30: Di ciò che avvenne a don Chisciotte con una bella cacciatrice
Dopo l’episodio della barca incantata, don Chisciotte e Sancio proseguono il loro cammino. Un paio di giorni dopo, uscendo da un bosco, don Chisciotte intravede delle persone in fondo a un prato. Avvicinandosi, vede una dama vestita di verde. Don Chisciotte ordina a Sancio di andare a dire alla signora che il Cavaliere dei Leoni è disposto a servirla. Lo scudiero obbedisce e, dopo averlo ascoltato, la signora gli chiede di andare a prendere il famoso Cavaliere dalla Triste Figura, che può servire sia lei che suo marito, il duca. Prima che Sancio vada a cercarlo, la dama gli chiede se il suo padrone non sia forse il cavaliere della storia raccontata in un libro intitolato L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia e lo scudiero risponde di sì.
Don Chisciotte e Sancio raggiungono il duca e la sua signora. Lo scudiero si impiglia con il piede nella staffa e don Chisciotte, fiducioso che Sancio è lì per aiutarlo, scende da Ronzinante e cade bruscamente a terra. Dopo aver tratto alcune conclusioni su Sancio, come ad esempio che è simpatico e chiacchierone, il duca invita don Chisciotte al suo castello per dargli il benvenuto, come lui e la duchessa fanno con tutti i cavalieri erranti.
Capitolo 31: Che tratta di molte e grandi cose
Don Chisciotte arriva al castello del duca e di sua moglie e viene accolto da due belle fanciulle che danno il benvenuto al “fior fiore dei cavalieri erranti”. Poi alle fanciulle si uniscono diverse persone che festeggiano l’arrivo di don Chisciotte. Gli danno dei vestiti per cambiarsi e poi lui e Sancio vengono condotti da due paggi al tavolo dove i padroni di casa li stanno aspettando per mangiare. Il duca dà a don Chisciotte il posto di capotavola, mentre Sancio dice di voler raccontare una storia sul suo padrone, il che preoccupa don Chisciotte, che pensa che il suo scudiero stia per metterlo in imbarazzo dicendo qualcosa di sciocco.
Sancio racconta la storia in cui un contadino si reca a casa di don Chisciotte ed entrambi vogliono cedere all’altro il posto a capotavola. La storia si conclude con il nobile che obbliga il contadino a sedersi a capotavola, perché in casa sua si fa come lui comanda. Alla fine della storia, don Chisciotte diventa “di mille colori” per l’imbarazzo. Un ecclesiastico, anch’egli a tavola e che ha sentito parlare di quest’uomo che si crede un cavaliere errante e appare in un libro, si rivolge direttamente a don Chisciotte e gli chiede: “chi vi ha ficcato in testa d'essere cavaliere errante e che vincete giganti e che catturate malandrini?”. Il capitolo si conclude con il narratore che spiega che la risposta di don Chisciotte merita un capitolo a parte.
Capitolo 32: Della risposta che don Chisciotte diede al suo riprensore e d’altre cose e serie e facete
Don Chisciotte si difende dalle parole dell’ecclesiastico sostenendo che ognuno prende le proprie decisioni e afferma: “[…] io invece, condotto dalla mia stella, vado per lo stretto sentiero della cavalleria errante, e per seguirne la professione ho in dispregio la ricchezza; ma l'onore no”. Allora Sancio elogia le parole del suo padrone e l’ecclesiastico gli chiede se sia lui il famoso Sancio Panza a cui il padrone deve un’isola. Sancio risponde di sì e aggiunge di essere colui che più di tutti merita quell’isola per essere stato al fianco del suo padrone per tanto tempo. A questo punto, il duca dice di avere un’isola abbandonata e che sarà lieto di cederne il governo a Sancio. Lo scudiero bacia i piedi al duca e l’ecclesiastico protesta: “Vedete un po' se non hanno da esser matti essi, dal momento che i savi ratificano le loro pazzie”, dice, e va via.
Don Chisciotte afferma di non sentirsi offeso dalle parole dell’ecclesiastico, del resto, le donne, i bambini e, giustamente, gli ecclesiastici sono persone che non possono difendersi e non sono quindi in condizione di offendere nessuno. Dopo cena, un gruppo di damigelle entra nella stanza per lavare la barba di don Chisciotte. Il duca chiede di essere lavato anche lui e Sancio chiede di poter usufruire di questi servizi, al che la duchessa ordina alle sue cameriere di occuparsi delle richieste dello scudiero. Allora, sia loro che lui lasciano la stanza.
Il duca chiede a don Chisciotte di Dulcinea e lui risponde di averla trovata incantata, sotto l’aspetto di un comune contadina. Poi il duca domanda chi possa essere stato così crudele e il Cavaliere dai Leoni aggiunge che è stato uno dei tanti incantatori che lo perseguitano. A questo punto la duchessa fa riferimento al fatto che molti pensano che questa Dulcinea sia frutto dell’immaginazione di don Chisciotte, al quale egli risponde che Dio solo sa se esiste o meno una Dulcinea al mondo. Il duca, da parte sua, aggiunge che, dalle storie che ha letto di don Chisciotte non c’è dubbio che questa Dulcinea esista. La duchessa dice di essere disposta a crederci, ma di avere dei dubbi sulla sua discendenza, visto che lo stesso Sancio ha raccontato di averla trovata a pulire un sacco di grano quando le ha portato una lettera del suo padrone. Don Chisciotte sostiene la sua teoria sull’incantesimo di Dulcinea dicendo che, essendo già sfuggito a tali magie in passato, ora gli incantatori si impossessano delle cose che ama di più. D’altra parte, elenca le virtù di Sancio come scudiero e chiede al duca di non concedergli il governo dell’isola.
A quel punto entra Sancio, schivando il barbiere che vuole pulirgli la barba. La duchessa chiede cosa stia succedendo e Sancio risponde che vuole la barba pulita, ma con asciugamani più puliti. Don Chisciotte, arrabbiato per l'aspetto trasandato del suo scudiero, chiede ai barbieri di lasciarlo in pace. Ridendo, la duchessa dà ragione a Sancio e chiede ai barbieri di andarsene, allora Sancio si getta ai suoi piedi e la ringrazia per il suo intervento.
Infine don Chisciotte si ritira per un pisolino e la duchessa invita Sancio a trascorrere un po' di tempo con lei e le sue damigelle in una stanza fresca. Il duca, invece, rinnova l’ordine di trattare don Chisciotte come un cavaliere errante.
Capitolo 33: Della gustosa conversazione che la duchessa e le sue damigelle tennero con Sancio Panza, ben degna d’esser letta e notata
Sancio si reca dove sono la duchessa e le sue damigelle e la donna vuole sapere alcune cose su don Chisciotte. Lo scudiero confessa di considerare il suo padrone un “pazzo da legare”, anche se ammette che a volte parla in modo molto coerente. A questo punto la duchessa dice a Sancio che è strano che, essendo così consapevole della follia del suo padrone, continui a servirlo e aggiunge di non essere sicura che sia una buona idea dare un’isola da governare a una persona che “non sa governare se stesso”. Sancio risponde che seguire don Chisciotte è la sua maledizione e, come tale, non può liberarsene.
Poi la duchessa dice a Sancio di essere a conoscenza della verità su Dulcinea, ovvero che la contadina che Sancio ha fatto credere a don Chisciotte essere la sua Dulcinea del Toboso, sia in realtà la stessa Dulcinea sotto un incantesimo. Aggiunge che Sancio, che pensa di essere l’ingannatore, sia in realtà colui che è stato ingannato. Lo scudiero dice che questo è del tutto possibile e che ora preferisce credere che tutto ciò che il suo padrone dice sia accaduto nella grotta di Montesinos sia vero. La duchessa chiede a Sancio di raccontarle, e lui racconta punto per punto quello che gli ha detto il suo padrone. In seguito, la duchessa aggiunge che non c’è dubbio che la Dulcinea della grotta di Montesinos e la Dulcinea contadina siano la stessa persona e che, evidentemente, ci siano molti incantatori ovunque. Poi sia Sancio che la duchessa si ritirano per riposare.
Quando la duchessa incontra il duca nella sua stanza, gli racconta quello che è successo con lo scudiero e i due decidono di fare una beffa a don Chisciotte, che diventerà famosa, in uno stile molto cavalleresco.
Capitolo 34: Che narra come fu conosciuto il mezzo da usarsi per disincantare la senza pari Dulcinea del Toboso: che è una delle più celebrate avventure di questo libro
Il duca e la duchessa intendono fare uno scherzo a don Chisciotte e così, dopo aver dato istruzioni ai loro servi, invitano don Chisciotte e Sancio a una giornata di caccia. Una volta nella foresta appare un grosso cinghiale e, mentre don Chisciotte, il duca e la duchessa si mettono sulla sua strada ed estraggono le armi, Sancio scappa via, si aggrappa a un ramo ma rimane intrappolato e comincia a chiedere aiuto. Intanto i cacciatori sparano all’animale. Don Chisciotte sgancia Sancio dal ramo e Sancio afferma di non capire perché i nobili debbano esporsi a tali pericoli, come quello di essere trafitti dalla zanna di un cinghiale. Il duca allora gli spiega quanto sia importante la caccia in termini di immagine e gli chiede, quando sarà governatore dell’isola, di occuparsi della caccia. Sancio inizia a pronunciare diversi proverbi per giustificare la sua posizione di non cacciare, così don Chisciotte si arrabbia e lo maledice per questo, mentre la duchessa elogia il fatto che Sancio parli per proverbi.
Il crepuscolo li sorprende ancora nella foresta e al calare delle tenebre si odono trombe e altri strumenti di guerra e si vede del fuoco in tutte le direzioni. All’improvviso, appare un uomo con le sembianze di un demonio che suona un corno. Quando il duca gli chiede chi sia e cosa ci faccia lì, l’uomo risponde di essere il Diavolo e di cercare don Chisciotte, poi aggiunge che Dulcinea del Toboso e Montesinos sono con lui, poiché quest’ultimo vuole mostrare al Cavaliere dei Leoni come disincantare la sua amata. Dopo aver detto ciò si volta, suona il corno e, senza attendere risposta, se ne va. Poco dopo si sente il suono di corni, trombe e trombette e una carrozza si ferma nel punto in cui si trovano. Il cocchiere si presenta come il mago Lirgandeo e prosegue, dietro di lui arriva un altro carro, quello del mago Alchife e infine arriva il carro di Arcalaus l’Incantatore. Tutti e tre i carri sono fermi nello stesso posto quando, all’improvviso, una musica inizia a suonare e questo tranquillizza Sancio, che dice alla duchessa: “Signora, dove c'è musica non ci può essere cosa cattiva”.
Capitolo 35: Dove si seguita dicendo come don Chisciotte apprese potersi disincantare Dulcinea, nonché di altri maravigliosi avvenimenti
Dopo alcune carrozze ne appare una, più grande delle altre e su di essa siede una ragazza di non più di vent’anni, con il volto coperto da un delicato velo. Accanto a lei c’è una figura con una lunga e lussuosa veste che, quando il velo viene tirato indietro, si rivela essere la figura della morte. Poi, si presenta come Merlino, principe della magia, e aggiunge di aver ascoltato la richiesta di Dulcinea del Toboso, una principessa diventata contadina, di avere la formula per liberarla dall’incantesimo e rivolgendosi a don Chisciotte dice:
“[…] ei bisogna che Sancio tuo scudiero
si dia frustate tremila e trecento
su tutte e due le belle sode chiappe,
ben messe allo scoperto, e tali sieno
che gli frizzin, lo ammacchino e gli sgallino […].”
Sancio non è disposto a farsi frustare, anzi, dice che per lui Dulcinea può andare nella tomba incantata. Così don Chisciotte si infuria e gli chiede di spogliarsi, perché ha intenzione di dargli seimila frustate, per sicurezza. Sancio continua a rifiutarsi e in quel momento interviene la ragazza, che rivela il suo volto e afferma di essere Dulcinea stessa, intrappolata nell’incantesimo che la fa sembrare una contadina. Quest’ultima chiede quindi a Sancio di non perdere tempo e di frustarsi da solo, ma lui non cede e il duca chiarisce che se non si lascerà frustare per disincantare Dulcinea, non potrà dargli il governo dell’isola che gli ha promesso. A questo punto Sancio dice che lo farà a condizione di potersi frustare ogni volta che lo vorrà e Merlino glielo concede. Così, prima di partire, la ragazza ringrazia Sancio per averla salvata dall’incantesimo. Il duca e la duchessa tornano al castello e ridono tra loro per la buona riuscita della loro beffa a don Chisciotte.
Analisi
Il capitolo 30 dà inizio a quella che sarà la grande avventura di don Chisciotte in questa seconda parte. Tuttavia, questa avventura, lunga, complessa, composta a sua volta da diversi episodi, non sarà responsabilità del cavaliere errante, ma saranno i suoi anfitrioni, i duchi, ad allestire il teatro perfetto perché il Cavaliere dei Leoni possa dare libero sfogo alla sua follia. In un primo momento don Chisciotte scorge la bella duchessa nel prato, manda Sancio a offrire i suoi servigi e quando lei capisce che si tratta del Cavaliere dalla Triste Figura e del suo scudiero ne è entusiasta e non esita ad andare a dirlo al marito, il duca, che li invita immediatamente nel suo castello. Questa disponibilità arbitraria e categorica da parte del duca e della duchessa nei confronti di don Chisciotte e Sancio mette già in guardia sulle intenzioni che hanno nei loro confronti.
Ma chi sono questi duchi? Al momento non si sa molto di loro, se non che siano entrambi grandi lettori della prima parte del Don Chisciotte. Questa informazione può sembrare irrilevante, ma sarà decisiva per i capitoli successivi, in cui i duchi metteranno in piedi una serie di finzioni per divertirsi con la follia di don Chisciotte, proprio come hanno fatto leggendo il libro in cui sono raccontate le sue folli avventure.
La presentazione di don Chisciotte e Sancio davanti ai duchi sembra un passo comico o l’entrata in scena di due pagliacci: il cavaliere magro e triste che cade al suolo da Ronzinante, e lo scudiero grasso e aggraziato che pende a testa in giù dalla staffa del suo asino. Da questo momento in poi tutto è finzione, creata appositamente per don Chisciotte e Sancio, come se i duchi volessero riprodurre le condizioni di un libro per vedere lo spettacolo della follia del cavaliere errante in tutto il suo splendore e divertirsi a sue spese. Difatti, il duca li anticipa quando vanno tutti insieme al castello per prepararsi all’arrivo di don Chisciotte e Sancio, cioè per dire ai suoi stallieri, paggi, servitori e damigelle quale parte dovranno recitare.
Una volta arrivati al castello si verifica una situazione molto significativa per il romanzo, ovvero, la discussione tra don Chisciotte e l’ecclesiastico, che è esasperato sia dalle sciocchezze che il Cavaliere dai Leoni dice, sia dalla voglia di ridere di lui dimostrata dai suoi anfitrioni. Dopo che l’ecclesiastico accusa don Chisciotte di essere pazzo, il Cavaliere dai Leoni risponde con indignazione:
“È egli forse vano assunto o è tempo male impiegato quello che si spende in vagare per il mondo, non già a cercare i diletti ma i travagli, attraverso i quali i buoni ascendono al soglio della immortalità? Se mi avessero ritenuto un babbeo i cavalieri, i magnifici signori, i nobili, le persone di alti natali, lo avrei reputato oltraggio irreparabile; ma che mi ritenga per scimunito gente letterata, che non ha mai preso né battute le vie della cavalleria, non me ne importa un picciolo: cavaliere sono e cavaliere morrò se piace all'Altissimo.”
Dopo la risposta sdegnosa del Cavaliere dei Leoni all’ecclesiastico, quest’ultimo se ne va disgustato. Perché questa situazione è significativa? Innanzitutto, perché è l’unico personaggio di questa seconda parte che denuncia esplicitamente la follia di don Chisciotte. Inoltre, lungi dall’esserne soddisfatto, si indigna con chi vuole ridere della sua follia. In questo senso, il personaggio dell’ecclesiastico ha una duplice funzione: da un lato, si pone come portavoce della ragione, quella che don Chisciotte nega nella sua ossessione di essere considerato un cavaliere e, dall’altro, stabilisce dei criteri morali, in base ai quali ciò che i duchi fanno con un pazzo popolare come don Chisciotte sia più che riprovevole.
Detto questo, è interessante notare cosa succede in questo episodio con il tema della religione. È chiaro che Cervantes sia sempre stato molto attento nel trattare la religione in generale e il cattolicesimo in particolare nel corso del romanzo. In parte perché capisce che la fede in Dio è uno dei pilastri fondamentali di un cavaliere errante come don Chisciotte, in parte perché lui stesso era un uomo di fede. È quindi comprensibile che questo ecclesiastico funzioni come una sorta di bussola morale e, allo stesso tempo, come ambasciatore della ragione. Tuttavia, questo personaggio lascia il castello dei duchi indignato dopo la risposta di don Chisciotte. In altre parole, se ne va e non comparirà più, né lui né altri religiosi come lui, in tutto il romanzo. Perché? Perché questa seconda parte cerca l’umorismo e persino il dramma per vie molto diverse da quelle della prima. A tal fine, in questo secondo libro, don Chisciotte e soprattutto coloro che ridono di lui hanno bisogno di più libertà, meno restrizioni morali e, fondamentalmente, meno consapevolezza della realtà. Ciò permette a Cervantes di portare i suoi personaggi a livelli di profondità e complessità impensabili nella prima parte. Occorre notare che molti critici concordano sul fatto che questa seconda parte del Don Chisciotte sia decisamente più generosa della prima in termini di ricerca letteraria e di risorse, e parte di questa generosità è senza dubbio legata a quelle libertà che Cervantes cercava, rinunciando alle restrizioni morali che potevano essere imposte da una presenza più forte, non del cattolicesimo in sé, ma dei suoi portavoce, cioè degli ecclesiastici, poiché sono loro, alla fine, a giudicare i personaggi.
In queste prime pagine che si svolgono nel castello, si nota anche un’atmosfera festosa, motivata sia dai padroni di casa che dai loro sudditi. Tutti vogliono divertirsi, sempre, senza sosta e, in un certo senso, è come se fossero ossessionati dall’idea di ridere del cavaliere errante e del suo scudiero. Questo si traduce in una totale assenza di scrupoli o di qualsiasi tipo di barriera morale nei confronti dei loro ospiti. In altre parole, in questi primi capitoli nel castello si delinea un’idea che non solo si manterrà, ma si approfondirà con il passare delle pagine. I duchi e i loro servi sono disposti a tutto pur di divertirsi con questo personaggio stravagante e folle che è don Chisciotte. In questo senso, questa mancanza di considerazione in diverse occasioni sembrerà più una forma di crudeltà che altro, al punto da portare a una domanda assolutamente valida, chi è più pazzo, don Chisciotte o questi duchi, membri della nobiltà che, nella loro smania di divertirsi a spese di un uomo mentalmente squilibrato, hanno perso quella bussola morale che caratterizza le persone sane di mente?
D’altra parte, questo passaggio del racconto mette in evidenza qualcosa che è stato accennato per diverse pagine, il vero protagonista di questa seconda parte del Don Chisciotte è Sancio Panza. Tutti lo cercano, tutti vogliono parlare con lui, tutti, senza eccezione, e questo include lo stesso don Chisciotte e i lettori, che si meravigliano dell’evoluzione del personaggio dal Sancio patetico e brutale della prima parte. Ora parla meglio, è più arguto ed è anche un po' più suscettibile nel confondere la realtà con la finzione. Con una licenza poetica, si potrebbe affermare che Sancio sia stato chisciottizzato.
Allo stesso modo, nel capitolo 33 si può apprezzare una generosa esibizione del repertorio linguistico e umoristico di Sancio: colloquialismi, sciocchezze sul suo asino, espressioni argute e sprezzanti nei confronti della damigella della duchessa, retorica assurda e, soprattutto, l’anarchica e pittoresca messa in fila di detti popolari e frasi fatte, sia nella versione originale che nelle variazioni di Sancio. Tutto questo affascina la duchessa e, in qualche misura, riflette fedelmente i gusti del lettore medio dell’epoca. Cervantes accentua la “rusticità” della ricchezza espressiva di Sancio facendogliela sperperare con un personaggio, la duchessa, il cui rango sociale dovrebbe esigere dagli inferiori una rispettosa formalità nel parlare.
Se si prende come riferimento Alonso López Pinciano, autore dell’influente Philosophía antigua poética (1596), era improprio per un garzone pronunciare la parola “brocca”, per esempio, in quanto parola eccessivamente prosaica, davanti a un re. Si può quindi immaginare l’effetto sui lettori contemporanei del Don Chisciotte al passaggio in cui Sancio prega la duchessa di prendersi cura del suo asino: “Basta che sia tenuto nella rimessa […] perché cari quanto la pupilla degli occhi di vostra grandezza non siamo degni di esserle né lui né io, e tanto poco lo consentirei io quanto a darmi una pugnalata; perché, sebbene il mio signore dica che in materia di cortesie val meglio perdere per una carta di più che per una di meno, in materia giumentesca e somaresca bisogna procedere misurati e star nel giusto limite”. La duchessa, da parte sua, come farà più avanti nello scambio epistolare con Teresa Panza, si diletta a incitare e a sottolineare queste infrazioni alle leggi del decoro proposte dallo stile di Sancio.
D’altra parte, c’è un momento precedente in questo stesso capitolo in cui il personaggio di Sancio raggiunge la vera grandezza, nella breve ma sentita dichiarazione di lealtà e affetto con cui difende la sua relazione con il padrone, pur accettando che don Chisciotte sia pazzo:
“Per Iddio, signora […] questo dubbio nasce naturalmente; ma gli risponda vossignoria di parlare pur chiaro, ossia che dica pure come vuole, perché io so che dice vero. S'io avessi avuto giudizio, da tempo avrei dovuto lasciare il mio padrone; ma questa è stata la mia sorte, questa la mia mala ventura; non posso far altro, debbo seguirlo, siamo dello stesso paese, ho mangiato il suo pane, gli voglio bene, è riconoscente, mi ha dato i suoi somarelli, sopra tutto poi, io sono fedele; perciò è impossibile che ci possa separare altro fatto che non sia quello delle finali quattro palate di terra.”
Così, a quel misto di fede ingenua e scetticismo che caratterizzava l’atteggiamento di Sancio nei confronti del suo padrone nella prima parte, e che ne determinava gli occasionali tentennamenti di fedeltà, si è sostituito un consapevole sentimento di solidarietà, basato sul riconoscimento di quanto li accomuna, compreso, a questo punto, anche il fatto di condividere la stessa fortuna letteraria.
Ora, le beffe che seguono d’ora in poi possono essere messe in relazione con spettacoli teatrali che imitano da vicino le feste di palazzo e pubbliche, mascherate, tornei, commedie all’aperto, finte battaglie, fuochi d’artificio, cavalcate, processioni civili e religiose, comuni nella società europea del Rinascimento e del Barocco, e molto frequenti nella Spagna dell’epoca. Queste feste fornirono a Cervantes un modello naturale per diversi motivi: da un lato, con la pubblicazione della prima parte del Don Chisciotte, le figure del cavaliere errante e di Sancio vennero incorporate in questo tipo di feste; dall’altro, le feste mascherate a palazzo del XVI e XVII secolo erano generalmente basate su temi cavallereschi, e uno dei temi preferiti era il disincanto di una fanciulla imprigionata in un castello incantato. Questi spettacoli erano solitamente destinati a celebrare qualche evento degno di nota, come ad esempio l’arrivo di un principe. A questo proposito, si può facilmente fare un paragone con l’accoglienza di don Chisciotte nel palazzo ducale e poi, verso la fine del romanzo, a Barcellona.
D’altra parte, è interessante considerare alcuni aspetti della giornata di caccia. I duchi invitano don Chisciotte e Sancio ad andare a caccia in montagna. Quando appare il cinghiale, lo scudiero afferra un ramo e vi rimane incastrato. Questo atto di codardia fa parte dell’identità che Sancio porta con sé già dalla prima parte e, in questo senso, i cambiamenti che sono avvenuti in lui sono complementari a quell’identità. Al calar della notte, si comincia a sentire il suono delle trombe e grida di ogni tipo. La situazione diventa così intensa che anche coloro che sono consapevoli della beffa (i servi del duca) si spaventano, e Sancio sviene tra le braccia della duchessa. Già nel capitolo 35, Sancio diventa l’unico strumento in grado di disincantare Dulcinea. Lo scudiero rifiuta di ricevere le tremilatrecento frustate sulle natiche, non perché si sia reso conto della farsa che i duchi mettono in scena per ridere di loro, ma perché il disincanto di Dulcinea non gli sembra una ragione sufficiente per subire un tale dolore e una tale umiliazione. Quindi, sebbene in questa seconda parte lo scudiero sia molto più incline a confondere la finzione con la realtà, esiste per lui un limite molto chiaro: quello della sua integrità fisica. Questo limite lo distingue dal suo padrone, don Chisciotte, che, spinto dal suo delirio cavalleresco, si espone a situazioni che mettono a rischio la sua salute, come per esempio nel capitolo 29, in cui quasi annega mentre cerca di salvare alcuni presunti prigionieri da una fortezza in mezzo al fiume che, in realtà, era un mulino.
A questo punto è possibile affermare che quella di Sancio sia una follia piuttosto prudente, mentre quella del suo padrone non lo sia affatto, anche se in questo secondo libro le situazioni di esposizione al pericolo saranno scarse rispetto a quelle del primo. Insomma, questa seconda parte del Don Chisciotte sembra aver capitalizzato gli aspetti più rilevanti e divertenti della prima, ma è chiaro che ne cerca una versione più raffinata o profonda. Soprattutto, si preoccupa di eliminare alcuni aspetti che erano stati criticati dai lettori della prima parte, come per esempio l’eccesso di violenza. In ogni caso, se c’è un eccesso in queste pagine, sarà in relazione ai duchi e al loro modo spregiudicato di divertirsi a spese di don Chisciotte e Sancio.